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Vi racconto il mio lavoro a Hollywood

di Paola Ratti

Numero 201 - Luglio-agosto 2019

L'italiano Silvio Muraglia, CEO della casa di produzione Paradox Studios, ci racconta la sua vita e il suo lavoro negli Stati Uniti


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A Hollywood si parla anche italiano, grazie a professionisti di casa nostra che hanno deciso di trasferirsi negli Stati Uniti e iniziare lì una nuova avventura lavorativa. È il caso di Silvio Muraglia, CEO di Paradox Studios, una società di produzione cinematografica e televisiva americana specializzata in coproduzioni internazionali, che finanzia e produce film indipendenti. Silvio è stato Vice Presidente di RAI, Presidente di Quinta Communications USA (società Fininvest/ Credit Agricole), produttore per USA Network (con accordo esclusivo triennale) e Manager di Bavariapool (partnership tra le aziende tedesche Telepool e Bavaria Studio). Silvio Muraglia vive e lavora da oltre due decenni a Los Angeles come dirigente televisivo e produttore cinematografico e ha al suo attivo più di venti film indipendenti come produttore e numerose produzioni televisive. Il suo più recente progetto come produttore è “After the Wedding” per il quale ha contribuito anche allo sviluppo della sceneggiatura. Il film verrà presto distribuito anche in Italia da Lucky Red. Noi l'abbiamo intervistato per provare a farci svelare il segreto del suo incredibile successo….

Come e quando ha deciso di trasferirsi negli Stati Uniti? -taglio- “Dopo Lettere e Filosofia alla Statale di Milano ero indeciso sul cosa fare… insegnare nelle scuole medie iniziando dalla trafila delle supplenze? Non faceva per me. Presi un periodo sabbatico per fare un viaggio comprando un camion in Germania per venderlo in Nepal. Fu il mio battesimo del fuoco. Un viaggio difficilissimo, avventuroso e pieno di imprevisti (un colpo di stato in Turchia e la presa di potere dei Mullahs in Iran) attraverso la Yugoslavia, la Turchia, l’Iran e il Pakistan. Vendere il camion fu molto più difficile di quello che ingenuamente avevo immaginato ma alla fine riuscii a venderlo con un modesto profitto e passai quasi sei mesi a girare per il Nepal e l’India. Per me fu una grande avventura ed un’esperienza essenziale e formativa. Tornato in Italia che fare? Mi ero innamorato del cinema negli anni del Liceo Classico grazie a un prete super intellettuale (era amico di Le Corbusier e dei Nouveaux Philosophes francesi) che organizzava un Cineforum e spiegava dopo le proiezioni con passione e dovizia di dettagli il lavoro di registi, attori e le tecniche cinematografiche. Ero affascinato dalla sua conoscenza profonda del cinema e ancora di più dalla sua passione. Conobbi attraverso lui il lavoro di Bergman, Fellini, Godard, Truffaut, Cassavetes, John Ford. Si chiamava Don Gerolamo Giacomini. Insomma decisi di partire per Los Angeles per una nuova avventura e lavorare nel cinema.”

Qual è stato il primo impatto con la macchina produttiva americana e con Hollywood?

“Mi ci volle molto tempo, molta tenacia e moltissima perseveranza. Molte reazioni negative. Gli americani vedono il cinema come l’Arte Americana per eccellenza, il cinema non americano è considerato marginale o è puro apprezzamento artistico e divertimento intellettuale. Mi ci è voluto molto tempo per acquistare credibilità e rispetto. Devo molto al mio primissimo datore di lavoro, Sandy Cobe un uomo burbero ma generoso che mi permise di lavorare nelle vendite internazionali. Vendere film sfatò un po’ di miti, imparai quello che cercavano i distributori per il loro pubblico. Una volta acquisita esperienza sul campo arrivarono le opportunità. L’impegno e il lavoro hanno fatto il resto. Il nepotismo c’è anche qui e le relazioni sociali sono fondamentali. Possono servire ad aprire porte ma alla fine sono il talento, la passione e l’affidabilità che contano. La misura del successo negli Stati Uniti la decreta il mercato. Sono i numeri del box office che determinano il successo o il fallimento. L’espressione a Hollywood è ‘you are as good as your last movie’, vali tanto quanto il successo economico del tuo ultimo film. In Europa c’è ancora molto spazio per la sperimentazione artistica. Forse oggi questo spazio potrebbe diventare la nuova forza del cinema europeo. Purtroppo però manca il supporto produttivo, di marketing e distribuzione.”

Cosa ci dice del suo lavoro da Paradox Studios? Il primo film che ha prodotto con questa casa di produzione? E sul -taglio2- fronte televisivo?

“A Paradox Studios ci sono dal 2015 (anche se produco negli Stati Uniti da più di 20 anni). È una casa di produzione molto agile, concepita per muoversi rapidamente su progetti e opportunità del mercato. Sul nostro website l’abbiamo definita ‘boutique production company’ perché la filosofia aziendale è di lavorare con registi e soprattutto con scrittori che sono la forza motrice creativa. Lavoro molto con scrittori e registi, per mesi a volte per anni, perché credo soprattutto nella scrittura. La mia citazione preferita è quella di Hitchcock ‘to make a great film you need three things – the script, the script, and the script’ (Per fare un buon film sono necessarie tre cose, la sceneggiatura, la sceneggiatura e la sceneggiatura). Per me la prima e fondamentale qualità del produttore è la passione di raccontare storie e l’entusiasmo di divertire, stupire, incantare un pubblico, piccolo o grande che sia. Finora abbiamo prodotto solo film indipendenti, ma stiamo iniziando ad occuparci di televisione. Grazie allo streaming la televisione americana ha fatto giganteschi progressi di qualità e diversità. La nostra nicchia sarà di trovare idee e proprietà intellettuali europee, svilupparle e produrle così che funzionino anche per il pubblico americano.”

Parliamo di "After the Wedding", che uscirà presto anche in Italia. Qual è stato il suo contributo, anche sul fronte della sceneggiatura?

“Appunto parlando di lavoro con gli scrittori, Paradox ha finanziato e gestito lo sviluppo della sceneggiatura modificando la premessa della versione originale del film. Un remake per essere valido deve porsi il compito di reinterpretare la storia, non basta cambiare la lingua e l’ambientazione. Il film originale di Susanne Bier era centrato sull’incontro/scontro di due padri costretti dalle circostanze a confrontarsi con la consapevolezza di avere una figlia in comune. È stata mia l’idea di cambiare il genere dei protagonisti e trasformare la storia nello scontro/incontro di due madri che scoprono di condividere una figlia ma che rappresentano esperienze molto diverse nell’affrontare la sfida di riuscire a coniugare maternità e carriera.”

Il boom (quantitativo e qualitativo) delle serie tv, secondo lei, sta mettendo in crisi il cinema?

“Non credo che per il momento stia mettendo in crisi il cinema. La serie è un prodotto diverso e comunque la qualità delle serie tv nel panorama contemporaneo americano è molto alta e varia. L’obiettivo della serie è far affezionare il pubblico ai personaggi, far scattare l’identificazione del pubblico in una realtà conosciuta e quotidiana anche quando è fantascientifica o spinta all’estremo. Il cinema (da sala) è spettacolo di emozioni grandi e forti, di realtà dilatata e idealizzata.”





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