Il tempo delle parole
Il grande attore porta sul palco “Migliore”, spettacolo scritto e diretto da Mattia Torre, che guarda alla nostra storia comune, alle persone ed alla loro spregiudicatezza, al cinismo ed al disprezzo che troppo spesso serpeggia intorno a noi
La metamorfosi di un uomo che da paranoico, insicuro e debole si tramuta in un essere spietato che si guadagna la stima e il consenso di chi volontariamente o involontariamente lo circonda.
Valerio Mastandrea diventa così “Migliore”, spettacolo scritto e diretto da Mattia Torre in scena, tra le tante date della tournée, presso il bellissimo Teatro Comunale di Caserta. L’allestimento vede l’attore romano dar voce al monologo, scritto per lui nel 2005, che narra la storia comica e terribile di Alfredo Beaumont, un uomo normale che in seguito a un incidente (di cui è causa e di cui sente la responsabilità, benché sarà assolto) entra in una crisi profonda e diventa un uomo cattivo. Improvvisamente, la società gli apre tutte le porte: Alfredo cresce professionalmente, le donne lo desiderano, guarisce dai suoi mali e dalle sue paure. “Migliore” è una storia sui nostri tempi, sul paradosso dei disprezzati, che di fronte alle persone sprezzanti chinano la testa e, affascinati, li lasciano passare. Partendo dal titolo, chi è per lei il “migliore”? Come descriverebbe il protagonista, che è il riferimento dello spettacolo? “Un uomo semplice e indifeso, pieno di fiducia verso il prossimo, a cui viene chiesto di essere migliore quando per migliore si intende allinearsi ai codici di comportamento che prevalgono nel mondo moderno. Prevaricazione, spietatezza e individualismo feroce.” Questo spettacolo parte da lontano: com’è nata, proprio l’idea originaria, di mettere in scena il testo di Mattia Torre e in che modo è cambiata, nel corso del tempo, l’interpretazione? “Mattia voleva raccontare la parabola ascendente di un uomo che, per la sua natura sincera, leale e pura, era abituato a perdere. E credo volesse sottolineare come oggi per occupare un posto da "dirigente" nel mondo (non solo da un punto di vista professionale) ti venga chiesto di rinunciare a quello che sei. L'unico aspetto che non è cambiato, in questi venti anni, è il tema violentissimo del testo. Per il resto, in tanti anni si cambia come persone e anche come attori, non so se in meglio o peggio. Oggi forse riesco a godermi di più il tempo delle parole, e sperimento (l'ho sempre fatto, ma più per il tipo di attore che sono che per altro) intenzioni nuove su identici passaggi del testo. Riesco a giocare di più, forse. Ma spero che non se ne accorga nessuno.” È vero che sarà l’ultima volta che porterà in scena questo monologo e che poi ne curerà, invece, la regia? “Sì, credo che siamo arrivati alla fine di questa lunga strada fatta insieme. E che ora serva la giusta distanza, per farla continuare a percorrere a qualcun altro.” Al di là della riflessione, anche molto amara, sulla realtà in cui ci ritroviamo a vivere: questo spettacolo mantiene comunque una speranza nel futuro? “È una cosa che vorrei provare a far passare in questa ultima mia edizione. Ho chiesto "idealmente" il permesso a Mattia, perché credo che ne avremmo parlato e saremmo convenuti in una decisione simile. È una cosa sottile, spero che questa, al contrario dei miei "giochetti”, venga colta.” Tra teatro e cinema, la preparazione alla scena viene vissuta diversamente? In particolare, come vive il tempo del camerino che precede il momento dello spettacolo e il conseguente incontro con il pubblico? “La solitudine dell'attore è una condizione che incontriamo tutti. E non è esclusivamente relativa al camerino e alla tensione che si accumula in quelle quattro mura. Si corre il pericolo di sentirsi soli davanti al pubblico e, questo, è ciò da cui sono sempre stato terrorizzato nella mia breve esperienza teatrale. È come fare l'amore in due ma da soli. Non mi piace come sensazione e devo dire che non l'ho provata spesso, però quelle poche volte me le ricordo.” ’applauso finale, per un attore, che tipo di emozione è? Qual è la parte più emozionante nell’interpretazione di uno spettacolo dal vivo? “Stare col pubblico, in contatto costante. E fare del racconto e della scena lo spazio comune, dove chi interpreta e chi fruisce possono vivere la stessa forza di questa esperienza, anche se in forma ovviamente diversa.” Il pubblico: che cos’è? Una sua definizione. “Mi è capitato di recitare al Sistina davanti a 1300 persone e all'Argot di Roma, quando ho iniziato, davanti a 3 spettatori... Senza fare retorica, non era la stessa cosa. Ma il dovere e il piacere di recitare, anche solo per uno di loro, sono sempre stati gli stessi. Il Pubblico è questo, una componente attiva dello spettacolo che fai: sentirlo attento e coinvolto plasma lo spettacolo e lo rende ogni sera unico. Questo è il mio pensiero, di uno che comunque di teatro ne ha fatto poco, ci tengo a sottolinearlo.” Che cosa significa mettere in scena oggi, in questo inizio 2025, un testo scritto e diretto da Mattia Torre? C’è un ricordo o un’immagine che più si porta dietro di lui? “Sono passati vent'anni esatti da quando provavamo e cercavamo Migliore, a casa sua. La regia di questo spettacolo è stata definita dal minuscolo salotto in cui ci muovevamo. L'unico ricordo che mi accompagnerà, durante questo ultimo giro, è questo. Il tempo che è passato insieme e quello senza. Quello che è stato e che sarebbe potuto continuare ad essere. Le solite frasi quando ti manca qualcuno.”