Il “Native Language” di Pietro Condorelli è un album di storici standard jazz in trio
Pietro Condorelli, nel suo nuovo album “Native Language”, in trio con Antonio Napolitano al contrabbasso e Raffaele Natale alla batteria, rilegge nel suo stile caldo e virtuoso della chitarra jazz celebri standard. Porter, Strayhorn, Marks & Simons, Monk, Bolling, Duke e altri mostri sacri sono raccontati dal tocco di Condorelli, un caposcuola, maestro di tecnica e di improvvisazione che ha triturato la grande scuola di Barney Kessel, Joe Pass, Wes Montgomery e Jim Hall, ma anche Monk, Evans e Coltrane. Cinquant’anni, e non sentirli, di carriera, di riconoscimenti, di concerti, con la passione di chi ama la tradizione ma guarda al futuro.-taglio- Il tuo nuovo album, “Native Language”, è un grande viaggio musicale ed emozionale negli standard jazz più famosi, con un inedito…Come sempre, hai riletto Porter, Monk, Silver, Mark & Simon, alla luce della tua inconfondibile personalità… “La mia creatività nasce da un continuo confronto con la tradizione jazzistica, ma anche da una forte spinta interiore a esplorare e reinterpretare. Ogni standard jazz che affronto è come un territorio da riscoprire. Certamente, ho un legame profondo con i grandi del passato come Parker, Monk, Silver, ma cerco sempre di fare mio quel linguaggio, di interpretarlo con un approccio personale che sia in sintonia con il mio sentire e con il contesto musicale in cui vivo. Il mio jazz è un viaggio continuo tra passato e presente, dove tradizione e innovazione si intrecciano”. Massimo interplay con i musicisti che ti accompagnano nel tuo viaggio sonoro: Antonio Napolitano al contrabbasso e Raffaele Natale alla batteria. Un tocco elegante, un dialogo costante mai invasivo… “L’interplay che ho con Antonio e Raffaele è davvero speciale. Ogni musicista ha un proprio linguaggio e la capacità di comunicare senza mai invadere lo spazio dell'altro è fondamentale. Ho sempre cercato una dimensione di totale ascolto e di scambio reciproco, e con loro questo dialogo sembra essere fluido e naturale, qualcosa che si è concretizzato in modo perfetto solo in questo progetto. Il loro tocco elegante e il loro approccio sensibile hanno reso ogni performance unica”. Si legge nella tua esecuzione un atteggiamento quasi pianistico, oltre agli omaggi. In “I love you” di Cole Porter c’è una citazione da un arrangiamento di Oscar Peterson. Nel brano “A flower in a lovesome thing” di Billy Strayhorn il pensiero corre ad Horace Parlan e ad altri storici pianisti e compositori… “Il jazz è un linguaggio comprensivo di tanti differenti approcci alla melodia e ogni strumento porta con sé una sensibilità unica. Da chitarrista, sono sempre stato affascinato dal pianoforte e dalla sua capacità di gestire l'armonia in maniera tanto complessa quanto fluida. Pianisti come Oscar Peterson e Horace Parlan ma anche Bill Evans e Mcoy Tyner hanno influenzato molto la mia concezione del jazz, sia dal punto di vista armonico che melodico. Quando suono, tendo naturalmente a ricercare una qualità che possa ricordare quella fluidità e quella ricchezza armonica tipica dei pianisti, anche se il mio strumento è diverso. È un tributo, ma soprattutto un’estensione del mio linguaggio”.-taglio2- Nonostante ti cimenti con il jazz della tradizione, la tua ricerca compositiva e armonica è costante, con un’esecuzione impeccabile che fonde le due anime del jazz: rigore e libertà… “Per me, il rigore e la libertà sono due facce della stessa medaglia. Il jazz, nella sua essenza, è una danza tra questi due elementi. Il rispetto per la tradizione, lo studio delle forme e delle strutture armoniche sono fondamentali, ma allo stesso tempo la libertà di espressione e di improvvisazione è ciò che rende il jazz un linguaggio vivo e in continuo mutamento. Cerco di fondere queste due anime in modo che l’esecuzione sia tanto rigorosa quanto spontanea, senza mai perdere di vista l’emozione e la ricerca del nuovo”. La musica ha innumerevoli pubblici e questo può essere un buon segnale, in un’epoca di canzoni ripetitive e omologate che trionfano sui social, la riscoperta di musicisti iconici, di brani “classici” dei capiscuola…Qual è il futuro della musica jazz? “Il jazz ha sempre avuto la capacità di rinnovarsi, adattandosi ai tempi e alle sfide del momento. In un'epoca di musica molto commerciale e spesso omologata, credo che il jazz, pur rimanendo radicato nelle sue tradizioni, possa ancora essere una voce di libertà, un veicolo di innovazione. Il futuro del jazz dipenderà dalla sua capacità di dialogare con le nuove generazioni, ma anche dalla sua essenza di ricerca e sperimentazione. La bellezza del jazz è che, pur evolvendosi, conserva sempre la sua autenticità e la sua profondità”. Sei docente di Musica Jazz al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli: i giovani musicisti comprendono che il jazz è un modo di sentire e di relazionarsi con il mondo, di viaggiare su frequenze dell’anima? Dove suonerai prossimamente? “Molti giovani musicisti oggi sono molto sensibili alle radici profonde del jazz e alla sua dimensione spirituale. Non è solo un genere musicale, ma un modo di essere, di relazionarsi con gli altri e con se stessi. Il jazz ti insegna a essere in ascolto, a improvvisare non solo con gli strumenti, ma anche con la vita. Al conservatorio, cerco di trasmettere non solo la tecnica e la teoria, ma anche la filosofia che sta dietro questa musica, che è soprattutto un linguaggio di emozioni e di condivisione. Non tutti lo comprendono subito, ma vedo sempre più giovani che si avvicinano al jazz con una curiosità genuina e una voglia di esplorare non solo il suono, ma anche l'anima di questa musica. Il 16 febbraio suoneremo a Roma, alla Casa del Jazz!”.