Eseguite alla Domus Ars a Napoli, per il terzo appuntamento della rassegna “Attashh – al suono degli sguardi”, due divertenti lavori originali a metà fra musica e teatro
“Tutto nel mondo è burla”, questa l’unica citazione verdiana posta a titolo di un originale concerto che si è svolto a Napoli alla Domus Ars, terzo appuntamento della rassegna “Attashh – al suono degli sguardi”, a cura dell’Associazione “puntOorg”. Ma rispecchiava, con l’arguzia degna di Falstaff, l’intento piuttosto serio di interrogarsi sulle condizioni della musica contemporanea, -taglio-la cosiddetta e tanto temuta avanguardia, sui suoi mezzi espressivi e le possibilità di interazione con altre forme d’arte e col pubblico, soprattutto con i più giovani, magari studenti di musica, aspiranti professionisti. Nell’introdurre l’evento, Chiara Mallozzi, curatrice del progetto insieme con Luigi Maria Sicca e Davide Bizjak, ne discuteva con Sandro Cappelletto e Federico Capitoni, critici musicali ed esperti di comunicazione, nonché autori dei testi delle opere in programma, e con il compositore e pianista Domenico Turi. Quindi spazio all’ascolto, con la prova tangibile e la verifica sul campo di due divertenti lavori umoristici, a metà fra musica e teatro, farsa e commedia dell’arte, di sicuro concepiti e accomunati nello stesso spirito di libera improvvisazione e sconfinamento creativo. A cominciare dall’inedito “Ha ragione maestro!”, scritto da Cappelletto sul filo dell’equivoco e della leggenda popolare a proposito della “vera storia del famoso incontro, che non c’è mai stato, tra Ludwig van Beethoven e Gioachino Rossini”. Siamo a Vienna nel 1822: la capitale austriaca, patria d’elezione del sommo compositore tedesco e roccaforte del classicismo, cede anch’essa alle lusinghe del belcanto italiano, decretando il successo dell’opera buffa e del giovane musicista pesarese: non solo è un cambiamento dei tempi e del gusto, ma ad essere messa in crisi è l’essenza stessa dell’arte, il suo linguaggio, il suo valore etico e sociale. Questi i concetti che sottendono a un’azione scenica che procedeva spigliata e lineare, nell’apparente quotidianità di un domestico alle prese con lo scorbutico e geniale sordo che rivendica le pure forme della sonata, del quartetto e della sinfonia; se ne comprendono le ragioni, ma il mondo va da tutt’altra parte e non può sacrificare il proprio interesse immediato in nome di un ideale. Il tutto era condito nell’ironia e nel contrasto fra il comico e il metafisico, nel bel mezzo di battute impertinenti che si scambiavano i tre spazientiti personaggi, in realtà l’unico e multiplo Gianluca Bocchino, eclettico cantante/attore e brillante trasformista, per la regia di Leyla Martinucci. Al culmine dell’esagitazione, il protagonista si confondeva con il suo antagonista e alter ego al pianoforte (lo stesso Turi) come lui “disposto a delirare”, -taglio2-in un crescendo rossiniano di citazioni musicali cucite e riassemblate per l’occasione: dall’esordio irresistibile con il trascinante motivo del factotum dal Barbiere di Siviglia, al drammatico incipit della Quinta Sinfonia, passando dalla vetta sublime dell’Inno alla Gioia a una dispettosa “Per Elisa”, per un finale ingarbugliato e paradossale, volutamente irrisolto nel coniugare le severe istanze dell’arte con il diritto all’evasione. Sulla stessa falsariga la suite lirica da tinello “Non è un paese per Veggy”, parafrasando il celebre titolo di un romanzo, poi film pluripremiato, ma qui in versione rigorosamente “gluten free” per tutti i palati, ovvero moderno pasticcio gastronomico-musicale a base di mode vegane e narcisismi all’ennesima potenza che agitano capricciose primedonne (e anche uomini!) del patinato mondo dello spettacolo. Un connubio speculare, dunque, fra irrazionali abitudini alimentari e un arrivismo manipolatorio senza scrupoli, fotografia impietosa di una società egocentrica e bulimica che divora allo stesso modo cibo e persone: per fortuna la ricetta è a portata di mano, ed è anche qui una buona dose di leggerezza e di affabulazione teatrale per stemperare eccessi e aiutare a digerire l’indigeribile: da un piccolo baule delle meraviglie (o degli orrori, a seconda dei punti di vista), posto al centro della scena vicino al pianoforte, uscivano e rientravano grottescamente (fino a precipitarvi come inghiottiti nel vuoto, in un finale senza scampo) personaggi e anime le più disparate (tutte, come prima, interpretate dall’unico protagonista di cui sopra), pronte a sopraffarsi l’un l’altra, ognuna subdolamente reclamando spazi e pretese a danno altrui: sullo sfondo, quasi colonna sonora e parte integrante dell’azione, si inserivano innesti e stralci musicali che rimescolavano a puntino generi e stili diversi, dalla classica al jazz al pop, fino all’autocitazione intima e personale dell’autore, in un’atmosfera via via sempre più sospesa e straniante, per una parodia scanzonata quanto mai surreale e aleatoria che faceva il verso perfino a se stessa.