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Senza innovazione non c’è civiltà

di Franco Salerno

Numero 227 - Febbraio 2022

La nostra è l’epoca del cambiamento: a insegnarci come gestirlo ci sono i Grandi Scrittori latini


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La società dei primi due decenni del XXI secolo è sempre più legata ad internet, social, app e altre modalità di comunicazione via computer e cellulare. Questa è la più grande innovazione dei nostri tempi, ora funestati dal Covid. E sembra davvero impossibile immaginare di ritornare ad un mondo in cui questo tipo di comunicazione non esisteva e i rapporti umani erano vissuti in maniera diversa. -taglio- La Rete ci ha irretiti e stiamo sperimentando, accanto ad una vita più “facile” (si fa per dire!), la difficoltà ad accettare il fatto che si stanno lacerando altri aspetti del nostro essere uomini. E allora come comportarsi dinanzi all’innovazione e al cambiamento? Ancora una volta, può esserci di aiuto uno sguardo alla cultura classica dell’antica Roma. La “Caput mundi” di cambiamenti ne ha visti tanti. Ha cominciato la sua vita come una comunità di pastori, che arrivò (è un mito, ma veritiero un po’ come tutti i miti) a compiere un ratto delle donne per avere delle mogli (e, se la cosa finì bene, lo si dovette, come al solito, al buon senso del gentil sesso). Poi da villaggio di periferia diventò prima monarchia e, in seguito, repubblica e infine impero. I Romani non ebbero paura a cambiare questi regimi tradizionali. Cicerone, infatti, importò dalla Grecia la tesi secondo cui la monarchia si trasforma in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia e la democrazia nel potere anarchico ed eslege delle masse. E allora i cittadini dell’Urbe impararono che il Potere di per sé comporta abusi e sopraffazioni, come riconobbe lo storico Tacito. Che fece pronunciare al britannico Calgaco un tremendo j’accuse contro i Romani (“Predoni del mondo intero, poiché tutte le terre hanno devastato. Rubare, massacrare e rapire: queste parole hanno presso essi il falso nome di signoria: dove fanno il deserto, dicono di portare la pace”). -taglio2- Anche il Poema nazionale di Roma antica, l’Eneide, poggia la sua grandezza sul fatto che esso non cantò solo le guerre. Ebbe il coraggio di cambiare gli ingredienti del poema epico tradizionale. L’Iliade aveva come protagonista Achille, l’eroe della forza; l’Odissea cantava le gesta di Ulisse, l’eroe dell’intelligenza e della sopportazione. L’Eneide scoprì altri valori: la pietà religiosa, il senso della patria, il tema del mistero. Enea scende negli Inferi e incontra Didone, la donna che si è uccisa per lui (e che si dimostra superiore rispetto a lui: altra novità nell’ambito della cultura romana) e poi il padre Anchise, il quale gli profetizza che da lui discenderà Roma, capace non solo di “debellare i superbi”, ma anche di “perdonare ai vinti”. E Roma, a questo punto, fu pronta per l’ultimo, grande, rivoluzionario cambiamento: dichiararsi vinta e superata dalla cultura cristiana. Che si fondò anch’essa sul sangue, ma non quello delle genti sterminate, bensì quello di un Uomo-Dio che venne sulla Terra a dire che il suo Regno non è di questo mondo, ma va oltre il mondo stesso. Di questa innovazione storica e culturale siamo tutti figli. Da questo punto di vista aveva ragione Benedetto Croce quando disse: “Non possiamo non dirci cristiani.”





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