In questa intervista esclusiva l’attaccante del Napoli ci racconta i suoi primi mesi nel capoluogo campano ed i suoi progetti futuri fuori dal campo
la città di Napoli è andata completamente in visibilio, quando è stata ufficializzata la notizia del suo arrivo: Romelu Lukaku sarebbe stato uno dei nuovi attaccanti della rosa a disposizione di CT Conte. Nato ad Anversa, città nel nord del Belgio, Lukaku è “figlio d’arte” poiché proviene da una famiglia di calciatori: suo padre Roger è stato un calciatore della nazionale dello Zaire,-taglio- mentre sia suo fratello minore Jordan sia il cugino Boli Bolingoli-Mbombo hanno intrapreso la stessa carriera. Un destino quindi già scritto per il giovane Romelu, il quale crescendo è diventato un centravanti molto fisico che predilige l'uso del piede sinistro e che è abile anche nel gioco aereo. Nonostante la stazza imponente, è dotato di buona tecnica e di buona progressione palla al piede in campo aperto, tutte caratteristiche che abbiamo potuto ammirare anche all’inizio di questa nuova stagione sportiva. Noi di Albatros l’abbiamo incontrato al Napoli Training Center di Castel Volturno. Romelu certamente non è ancora il momento di poter fare pronostici o “tirare le somme” di questa stagione, però possiamo parlare dei tuoi primi mesi a Napoli… come sta andando? “Bene, molto bene e non parlo solo dei risultati sportivi che finora hanno premiato il duro lavoro che stiamo facendo io ed i miei compagni e spero possa continuare in questa direzione. Sto finalmente provando sulla mia pelle quello che avevo solo sentito raccontare da alcuni miei amici che hanno giocato con questa maglia: qui a Napoli si respira un entusiasmo fuori dal normale. Ogni giorno quando vengo qui ad allenarmi ogni singola persona è entusiasta di quello che si sta costruendo giorno dopo giorno. E poi la città, vabbè, cosa posso dire? Quando è uscita la notizia del contatto il mio Instagram era letteralmente inondato di messaggi dei tifosi del Napoli poi ho parlato con Mertens, che conosco da quando avevo 17 anni, quindi avevo già un amico fidato che mi preparava alla vita qui. Si vede che rappresenti un'intera città e la sua gente. È fantastico da provare. Ti dà energia per dare il massimo ogni giorno. Quando vedi i giocatori, i fisioterapisti, i camerieri, e tutti quelli che lavorano qui, sono tutti veri napoletani che amano il club. Questo ti fa sentire bene ma senti anche che c'è una grande responsabilità. Io, però, non ho paura delle sfide quindi sono pronto a tutto per questa maglia e per queste persone.” A proposito di sfide, negli ultimi anni sei stato portavoce della battaglia al razzismo invitando organi di governo del calcio, squadre e calciatori ad assumere iniziative di contrasto alla discriminazione negli stadi. A che punto siamo secondo te? “È assurdo pensarlo, ma questa è la sfida più complicata. La situazione purtroppo è molto complessa, poiché si tratta di cambiare totalmente l’approccio e la mentalità delle persone, ma quello che ho sempre sostenuto è che noi come atleti professionisti e personaggi molto in vista abbiamo il dover di doverci schierare chiaramente contro qualsiasi tipo di comportamento oggettivamente non corretto e offensivo. -taglio2- Abbiamo certamente fatto dei passi avanti, ma purtroppo vedo e sento ancora troppi episodi di razzismo attorno al mondo del calcio e non solo; io però sono una persona molto attiva nel sociale e nella comunità quindi sono determinato a continuare su questa strada.” Il calcio è sempre stato presente nella tua vita, fin da piccolissimo, è cambiata la tua prospettiva nei confronti di questo sport? Se sì, come? "Sono nato ad Anversa, una città nel nord del Belgio e mio padre era un calciatore nella massima serie belga; da Anversa ci siamo trasferiti a Liegi e poi a Bruxelles. Quando siamo tornati ad Anversa ho iniziato a giocare a calcio all'età di sei anni. Era a 20 minuti da dove vivevamo, non avevo la macchina, quindi sono andato in una squadra regionale. Ho giocato un anno lì, poi è arrivato il Lierse e sono rimasto lì due anni, vincendo anche il campionato belga due volte. Da ragazzo ero molto timido, non parlavo molto, ero concentrato ad avere successo nel calcio e sono rimasto così. Quando inizialmente non conosco le persone, mantengo le distanze, ma quando le persone sono buone con me, ci metto cuore e anima e do tutto me stesso. Il calcio nella mia testa ha rappresentato sempre un modo per avere una possibilità, per andare oltre i propri limiti ed uscire dalla propria zona di confort quindi più che cambiare prospettiva diciamo che è cresciuta, ma l’idea di base è sempre la stessa.” Hai più volte dichiarato che la tua famiglia è una presenza costante nella tua vita… “Sì, senza la mia famiglia sono perso. So di essere fortunato perché ho vissuto in un contesto familiare in cui la parola d’ordine era: insieme. Fin da quando ero bambino non c’è stata sera in cui a tavola tutti insieme ci si raccontava la propria giornata. Lo stesso approccio l’ho avuto con mio figlio, quando sarà più grande non dovrà mai avere il timore di dirmi qualsiasi cosa nel bene e nel male.” Prima di salutarci vorrei chiederti se hai mai avuto o pensato ad un possibile piano b, o meglio, se Romelu Lukaku non avesse fatto il calciatore professionista sarebbe stato… “Non ne ho assolutamente idea. Devo dire che per come la vedo io se si ha un obiettivo non bisogna pensare al piano b, perché significa che stai già prendendo in considerazione la possibilità di non riuscire ad arrivare alla meta prefissata. Quindi non ho mai pensato alla mia vita senza calcio, e anche se adesso sono consapevole che potrò continuare per non moltissimi anni ancora, comunque non è un pensiero su cui mi concentro. Quando sarà si vedrà.”