Roma, capitale del mondo, accettò nel suo seno popoli stranieri e culture diverse
Da anni ormai parliamo, ragioniamo, viviamo secondo l’ottica della “globalizzazione” e del “cosmopolitismo”, secondo cui ci sentiamo cittadini del mondo, uniti dagli stessi problemi e dalle stesse tragedie e siamo desiderosi di affrontare insieme crisi e difficoltà. E, però, al tempo stesso, in questo mondo, -taglio-i popoli che lo abitano si sentono davvero così? Non è che per ragionare secondo l’ottica del Tutto abbiamo perso di vista la sfera locale? O forse è possibile conciliare le due ottiche. Ed ancora: il nostro mondo si considera civile, eppure è attraversato da squilibri profondi al suo interno: popoli ricchi che sprecano risorse e popoli poveri che sono minacciati dalla fame e dalla guerra. Tutte le nazioni europee si stanno confrontando con questa emergenza epocale. Come al solito, però, noi ci chiediamo: è solo un fenomeno di questi nostri tristi tempi? No, di certo. Il grande e potente Impero Romano si era già misurato, circa venti secoli fa, con questo dramma. Ripercorriamo, insieme ai nostri lettori, gli aspetti del problema. Innanzitutto ricordiamo che la concessione del diritto di cittadinanza anche ai non romani e ai non italici fu un processo lento e graduale. Paradossalmente fu proprio un imperatore famigerato per il carattere violento e sanguinario, Caracalla, a estendere a tutti gli abitanti dell’Impero il diritto di cittadinanza. In tal modo, essere cittadini non dipendeva dall'essere nati o meno da genitori romani. Poteva esserlo chiunque faceva parte della società romana, -taglio2-chiunque obbediva alle leggi dello Stato romano, chiunque cooperava al successo di quel faro civiltà che era l’antica Roma. E il più famoso scrittore ed oratore latino, Marco Tullio Cicerone, fissò magistralmente questo concetto in una massima incisiva e lapidaria, che campeggia nelle pagine del suo trattato “Sui doveri”: “Coloro i quali dicono che bisogna aver riguardo dei concittadini, ma non dei forestieri, costoro dissolvono l’universale convivenza umana”. Alla luce di questa massima Roma divenne la “Caput mundi”, il cui più grande valore fu l’humanitas, secondo cui tutto ciò che riguarda l’uomo riguarda anche il singolo. Ciò comportava anche la disponibilità verso l’altro e lo straniero e un tipo di cultura mescolata e meticcia. Che ebbe tra i suoi grandi esponenti il francese Tacito, lo spagnolo Marziale, l’africano Sant’Agostino. Tutti diversi, tutti uniti nella difesa dei grandi Valori. E così Roma ereditò dalla Grecia (che politicamente non andò oltre la “città stato”) il concetto della democrazia, l’importanza di una scienza come la filosofia (che indaga sulla sorte dell’uomo e sulla collocazione dell’individuo in un sistema olistico e totalizzante), la passione del teatro (con il suo ruolo “catartico” sugli spettatori). E, dopo secoli, offrì il suo enorme patrimonio culturale agli intellettuali cristiani, i quali lo trasferirono su un piano metafisico e lo consacrarono come linfa vitale per l’Occidente.