Raccontare il vero
Apprezzato sia in Italia che all’estero, il regista romano dedica tutto se stesso ad ogni sua pellicola. Ad Albatros spiega la sua visione del cinema
Matteo Garrone è ormai uno dei registi italiani più apprezzati nel mondo, grazie alla sua capacità di coinvolgere lo spettatore e trascinarlo all’interno della pellicola, quasi come se fosse uno dei protagonisti. Facendo qualche passo indietro; Garrone si fa conoscere dalla critica e dal grande pubblico nel 2002 con “L'imbalsamatore”, film che conquista quell’anno il David di Donatello per la migliore sceneggiatura. Questa pellicola segna il momento cruciale nella carriera e nella poetica di Garrone. Infatti, grazie al budget più consistente rispetto ai suoi lavori precedenti, all'attenzione per lo scorrere della realtà si unisce una rigorosa ricerca formale, influenzata dagli studi artistici del regista e dai suoi dipinti su tavole. Nel 2008, però, Garrone raggiunge l’apice del successo grazie al film “Gomorra”, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes, di cinque European Film Awards, sette David di Donatello e nominato ai Golden Globe per il miglior film straniero. Nel 2015, il regista romano dimostra di fare sul serio, infatti, il suo film “Il racconto dei racconti - Tale of Tales” ottiene il plauso della critica e numerosi riconoscimenti, tra cui la vittoria di sette David di Donatello. Un percorso, quindi, fatto di ottimi risultati, ma tanto lavoro e forza di volontà. Matteo Garrone, figlio del critico teatrale romano Nico Garrone e della fotografa Donatella Rimoldi, si dedica al cinema fin da giovane e acquisisce presto i segreti che si nascondo dietro al mondo del cinema. Noi di Albatros l’abbiamo incontrato in esclusiva!
Partiamo dagli inizi, grazie a tuo padre sei presto entrato in contatto col mondo del teatro. Che rapporto hai con lui? -taglio- “Non posso assolutamente negare che mio padre è stato fondamentale nella mia formazione, anche se devo ammettere che anche il teatro nella sua totalità è stato formante. Ricordo che mio padre frequentava per lo più compagnie di ricerca, e questo mi ha permesso di vedere moltissimi artisti della scena e il loro approccio al palcoscenico. Quando ero un bambino, però, non andavo con molto entusiasmo a vedere gli spettacoli, perché mi annoiavo, sai a quell’età mi sarebbe piaciuto diventare un tennista professionista quindi immagina quanto mi poteva interessare il teatro! Anche se ricordo che gli spettacoli che mi appassionavano di più erano quelli della Gaia Scienza, forse per il loro essere ‘circensi’ e più movimentati. Crescendo, però, ho preso un’altra direzione, il mondo di mio padre iniziava ad intrigarmi e così ho deciso di seguirlo e riuscire a carpire tutti i segreti!”
Da quel momento è stato un crescendo di esperienze; quale delle tue prime opere hai particolarmente a cuore?
“Senza dubbio ‘Estate romana’; questo è il film cui sono più affezionato, risale alla prima parte della mia avventura di regista. All’epoca facevo cinema con quattro o cinque amici e con due o tre foglietti in tasca che costituivano la sceneggiatura. Si tratta di un film che appartiene a un periodo in cui cercavo di mettere nei miei lavori degli elementi di commedia. Devo dire che, in realtà, ho sempre cercato di mettere elementi di commedia nel mio cinema, il problema è che non credo di esserci mai riuscito!”
La scelta degli attori adesso è diversa! Anche se tende a scegliere sempre attori di teatro… come mai?
“Beh, in realtà sono in tanti che ancora adesso dicono che lavoro con attori non professionisti, cosa non vera. È capitato di scegliere interpreti ancora poco noti, fondamentalmente a me interessa la bravura non il curriculum! Certo, è capitato che lavorassi anche con persone di strada, ma è stata una piccola parentesi. In ‘Gomorra’, ad esempio, la maggior parte degli attori sono attori di teatro. Persino i ragazzini che ho preso erano tutti parte di ‘Arrevuoto’, quel bel progetto di teatro a Scampia che all’epoca portava avanti Marco Martinelli, da cui poi nacque la compagnia ‘Punta Corsara’ che oggi gira in tutti i teatri. All’epoca erano ragazzini e io li presi per il mio film. Inoltre, quando scelgo un attore lo faccio sempre considerando le sue caratteristiche fisiche, perché per me la fisicità dei personaggi è molto importante. E siccome so che nel teatro c’è un potenziale enorme di grandi attori che non vengono valorizzati, che a volte hanno fisicità particolarissime, quando posso e ha senso li utilizzo. Così come utilizzo anche attori di cinema oppure, in qualche caso, gente presa dalla strada. Non c’è un regola. Ma mi piace molto lavorare con attori che vengono dal teatro, perché hanno un rapporto con la recitazione che nasce da una passione autentica, hanno una grande disponibilità e il più delle volte c’è un’intesa più profonda.”
Attori a parte, la critica ha spesso dichiarato che nei suoi film il trash diventa una chiave di lettura per interpretare il presente… È d’accordo con questa affermazione?
“In linea di massima si, e aggiungerei senza alcuna condanna, né giudizi. Mi spiego meglio: anche quando ho messo in scena un uomo che si rovina pur di andare al Grande Fratello in ‘Reality’, ho cercato un approccio umano, mi sono messo nei suoi panni. Certo, il fatto che lo spunto veniva da una storia vera, accaduta al fratello di una donna che mi era vicina, ha aiutato molto, ma in generale cerco sempre di capire fino in fondo i miei personaggi. Non credo che il compito di un regista sia di far calare giudizi dall’alto, ma di conservare l’umanità più profonda.”
Prima di finire l’intervista un ultima domanda: cosa dobbiamo aspettarci dal prossimo lavoro di Matteo Garrone?
“Eh, tenetevi pronti a tutto! No, scherzi a parte, per scaramanzia preferisco tenere ancora per me ciò cui sto lavorando attualmente. Sono entusiasta per come si stanno evolvendo le cose, e spero di continuare ad avvertire l’adrenalina degli inizi!”
“Ho sempre cercato di mettere elementi di commedia nel mio cinema, il problema è che non credo di esserci mai riuscito!”