Nell’epoca dell’Intelligenza artificiale è opportuno interrogarci su che cosa significhi “essere umano”. Vediamo le risposte di Plinio il Vecchio e di Terenzio.
Il concetto di Intelligenza artificiale & dintorni ormai domina il dibattito culturale dei nostri giorni e ci prospetta risultati eclatanti e orizzonti immensi, inconcepibili qualche anno fa. Il dubbio è che sembra delinearsi un futuro in cui l’uomo è sì al centro di questo progetto, ma è destinato a svolgere il ruolo (soltanto, o quasi soltanto) di “utente da soddisfare” mediante le macchine. -taglio- Però, il dibattito su questo tema verte anche su un importante quesito: che cosa significa “essere uomo” o “essere umano”. Se vogliamo fornire un ulteriore contributo a questo aspetto del dibattito, è opportuno interrogare i saggi del mondo latino, nel quale naturalmente non si parlava di Intelligenza artificiale, ma ci si interrogava sull’essenza dell’Uomo. E allora proviamo a compiere un breve cammino attraverso questo sentiero: sicuramente i pensatori dell’antica Roma ci daranno risposte interessanti. E cominciamo con un famoso aforisma: “L’uomo è un mondo in miniatura”. Esso ricorre in Plinio il Vecchio e in Macrobio, che ripresero un concetto dei filosofi greci Democrito e Aristotele, i quali ritennero che l’uomo è un insieme di fenomeni e di funzioni che riproducono l’insieme dell’Universo. Questa concezione, attraverso Boezio, arrivò fino al mondo cristiano-medievale e al Rinascimento, i quali parlarono dell’ “Uomo come microcosmo” rispetto al Macrocosmo, tesi che fu poi rielaborata in senso panteistico da Tommaso Campanella. Se questo motto sembra voler spiegare la “macchina umana”, un’altra sentenza intende definire l’essenza e il senso dell’esser uomo. Alludiamo alla celebre frase “Sono un uomo: niente che succeda ad un uomo io lo considero estraneo a me”. L’autore di questa massima è il commediografo Publio Terenzio Afro, che la usò nella sua commedia “Il punitore di sé stesso” al v. 77. -taglio2- Essa fu ripresa da Cicerone nei due trattati “Le leggi” e “I doveri” e da Sant’Agostino, il quale tramandò un interessante episodio: quando egli espose questa tesi di fronte a un pubblico di persone poco colte, tutti applaudirono commossi nel sentirsi “prossimo” rispetto a ciascun altro dei presenti. L’Umanesimo latino, inoltre, teorizza i limiti dell’uomo, creatura grande e ingegnosa (la parola “humanitas”, significa, oltre che “interesse per l’altro”, anche “cultura”), eppur essere fragile e debole. Lo dice Petronio Arbitro, il quale nel suo “Satyricon” (75, 1) proclama: “Siamo uomini, non dei” evidenziando l’inclinazione dell’uomo all’errore. In tal senso, anche i Grandi, come Omero e Demostene, soffrono di “cadute” (“Sono sommi, ma pur sempre uomini”). E, per questo, ognuno ha bisogno dell’altro, come aveva già detto il commediografo Cecilio: “L’uomo è un dio per l’altro uomo”. Insieme, gli uomini fondano la “società”, cioè un organismo, alla cui formazione ognuno di noi coopera con il suo contributo. Ritorniamo così a Plinio il Vecchio il quale sentenziò: “L’impegno sociale dell’uomo è la via per la gloria eterna.”