La storia di Gaetano Bresci, anarchico, raccontata nella pièce teatrale “Santostefano”, messa in scena dal Nouveau Theatre de Poche di Napoli
Non nuovo a testi difficili, dai risvolti psicologici, Antonio Mocciola, giornalista, scrittore, autore teatrale, appassionato meridionalista, legge l’incarcerazione dell’anarchico Gaetano Bresci, regicida, che morì nel carcere dell’isola di Santo Stefano nel 1901. -taglio- Messo in scena al Nouveau Theatre de Poche di Napoli, particolarmente indicato per raccontare, con scenografie ridotte all’osso, quasi claustrofobiche, con la regia di Livia Berté, si avvale di due intensi attori che ben si calano nei ruoli: Leonardo Di Costanzo (Bresci) ed Antonio Polese (il secondino). Figlio di contadini, di famiglia umile ma non povera, operaio qualificato, Bresci era schedato come “anarchico pericoloso”, reo di aver insultato delle guardie che volevano multare un fornaio per banali motivi. Uomo colto per l’epoca, parlava l’inglese, girava con una macchina fotografica e aveva contatti con gli Stati Uniti dove si trasferì. Venne a conoscenza della terribile repressione dei Fasci Siciliani da parte di Crispi e reputò intollerabile l’eccidio da parte dell’esercito del generale Bava Beccaris che fece sparare con i cannoni sulla folla di Milano insorta per protestare per l’aumento del prezzo del pane. Per tale sanguinosa repressione il generale fu insignito con la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia dal re Umberto I. “Al culmine di insopprimibili tensioni sociali, il gesto di Bresci placò gli anarchici italiani, che non difesero il loro esponente, dando vita a un periodo di relativa pace sociale (un po’ come accadde con le Brigate Rosse dopo l'omicidio di Moro) che certo non migliorò le condizioni di vita degli italiani, che rimasero le stesse di sempre, e che il tessitore toscano voleva ingenuamente vendicare”. Così scrive Mocciola nell’appassionante spaccato di vita di Bresci, ridotto in schiavitù nel carcere duro dell’isola ponziana, dove tutti sperano che muoia al più presto portandosi -taglio2- con sé i primi aneliti di pensiero libero, di giustizia sociale, di lotte per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, italiani e americani, di quella che Guccini definì “la guerra santa dei pezzenti”. Terribile il suo assassinio in carcere fatto passare per suicidio. Nel suo ergastolo è trattato solo da numero di matricola, un nulla, seviziato, isolato, privato di qualsiasi diritto, torturato psicologicamente dal suo secondino. Con quest’ultimo, anche lui giovane, costretto a un duro lavoro, lontano dagli affetti familiari, abbrutito dal sistema, Bresci non perde la speranza di fargli leggere il proprio gesto come un atto di ribellione estrema contro tutte le barbare repressioni emanate con decreto reale. Invano, perché il carceriere è anch’egli inconsapevole vittima di uno stato autoritario. Ben lega Mocciola, con salti storici, i momenti di sopraffazione degli aneliti di libertà e di riscatto delle genti oppresse – affamate, indigenti, meridionali. Un tempo Bresci piaceva alle donne ed era stimato come mente brillante. Oggi è un uomo in catene, gettato in una cella buia, impotente, solo con la propria coscienza, con i ricordi, con i suoi ideali di liberazione, di resistenza agli oppressori. La sua prigionia ricorda quella, successiva, di tanti incarcerati durante il ventennio del regime fascista. Ricordato in scritti, canzoni, film, Bresci è ben dipinto da Mocciola che restituisce umanità all’uomo, al giovane anarchico, lanciando stilettate alla stampa prezzolata dell’epoca, ai metodi illegali di detenzione, ai Savoia, alla finta pace sociale che non potrà mai instaurarsi con la violenza e la sopraffazione.