Un’intervista inedita al docente di Filosofia del Linguaggio e Teorie della comunicazione all’Università di Salerno, nella quale parla della sua ricerca ricca di spunti e riflessioni sulla retorica
Ho incontrato Mauro Serra, docente di Filosofia del Linguaggio e Teorie della comunicazione all’Università di Salerno ed autore del volume Retorica, argomentazione, democrazia. Per una filosofia politica del linguaggio edito da Aracne (2017). Il professor Serra è uno studioso dei sofisti, di Gorgia in particolare, e della retorica, una disciplina oggi di grande attualità. Il suo libro prende le mosse dall’Encomio di Elena di Gorgia e attraverso la rilettura di questo testo affronta, tra le altre cose, due temi da sempre molto dibattuti, e sui quali continua a pesare l’eredità platonica: il ruolo della retorica e la compatibilità tra verità e politica.
Professor Serra, nel primo capitolo del suo libro afferma che l’Encomio di Elena di Gorgia è un testo enigmatico. Ci spiega perché?
Intanto perché l’Encomio, come qualsiasi altro testo, è oggetto di un’interpretazione che risulta tanto più difficile quanto più incompleta e frammentaria è la conoscenza del contesto storico-culturale a cui il testo appartiene. Il testo gorgiano è poi enigmatico perché è difficile proporne un’interpretazione univoca. In un testo breve Gorgia addensa molti elementi differenti: la prima riflessione esplicita sulle caratteristiche e sull’efficacia del logos, la difesa paradossale dell’innocenza di Elena, una sottile e provocatoria analisi del concetto di responsabilità, una implicita promozione della sua stessa attività di intellettuale e insegnante. Nel primo capitolo ho cercato di mostrare il filo rosso che unisce questi diversi aspetti (ed altri ancora).-taglio-
Lei sostiene che Gorgia nell’Encomio di Elena non fa retorica ma filosofia politica del linguaggio. Che cosa significa?
È un’affermazione volutamente anacronistica e in parte provocatoria che rimanda però ad una questione sostanziale. Il termine ‘retorica’ non è mai adoperato da Gorgia ed in realtà non compare, almeno nei testi sopravvissuti, prima del IV secolo a.C. Alla fine del secolo scorso, alcuni studiosi hanno addirittura sostenuto che il termine sarebbe stato inventato da Platone e utilizzato per la prima volta proprio nel dialogo che ha per protagonista Gorgia. Anche senza essere convinti della correttezza di questa ipotesi, è ragionevole ritenere che la riflessione gorgiana si sviluppi in un contesto nel quale la retorica come disciplina non esiste ancora. Ma se questo è vero, diventa allora lecito domandarsi come vada inquadrata tale riflessione. L’utilizzo dell’etichetta ‘filosofia politica del linguaggio’ mi è parso adeguato per valorizzare il fatto che i sofisti sono stati i primi a intuire l’esistenza di una relazione costitutiva tra linguaggio e politica. La politica si fa innanzitutto con le parole, in particolare nei regimi democratici. Siamo in genere portati ad attribuire questa intuizione ad Aristotele che, come è noto, individua quali caratteristiche peculiari dell’essere umano il possesso del logos e il fatto di abitare la polis. Questa intuizione è però anche al centro della riflessione dei sofisti e dell’Encomio di Elena. Questa etichetta ci fornisce poi la chiave per una lettura unitaria dell’Encomio. Un testo che, a mio avviso, è una disamina dell’importanza ma anche dei pericoli insiti nell’uso del logos da parte dei membri attivi di una polis, ovvero dei cittadini.
Perché Gorgia può essere considerato democratico?
Il pensiero di Gorgia è stato spesso accostato a tendenze oligarchiche ed autoritarie. Per questo ho sentito il bisogno di mostrare che per Gorgia il legame con la democrazia è determinante. Gorgia si forma intellettualmente in città governate da regimi democratici ed è dunque plausibile che la sua riflessione sia influenzata da questo contesto. Il suo pensiero si rivela in ogni caso particolarmente adatto a dar conto di quanto accade in democrazia, a patto di riconoscere, naturalmente, il ruolo che nella democrazia svolge il conflitto e di considerare il linguaggio il luogo nel quale esso emerge nella forma di quella che definisco una violenza simbolica.
Nel suo libro ha scritto che è impossibile, e anche controproducente, immaginare di fare politica senza riferirsi alla retorica. Ci vuole spiegare meglio il senso di questa affermazione?
Da Platone in poi l’idea di una netta divaricazione tra retorica e politica ha costituito un motivo ricorrente. Nel Gorgia platonico la retorica è presentata come contraffazione di una parte della politica, ovvero della giustizia, autorizzando quindi la conclusione che una politica giusta non può che realizzarsi neutralizzando la retorica. Basta guardarsi intorno ancora oggi per constatare quanto un’idea del genere sia diffusa.Il problema è che essa riposa su una serie di assunzioni tutt’altro che pacifiche e che contrastano con ciò che possiamo ragionevolmente stabilire circa il-taglio2- funzionamento del linguaggio. Quando ci confrontiamo con la contingenza che caratterizza le decisioni da prendere in ambito politico - questa è la grande lezione dell’Encomio - non possiamo fare a meno della retorica, perché è attraverso di essa che prende forma il conflitto tra posizioni differenti. L’appello a fare a meno della retorica nasconde molto spesso la convinzione, pericolosa, di essere in possesso di una verità definitiva che non ha bisogno di essere continuamente rimessa in discussione.
Secondo i suoi studi la verità è compatibile con la politica nei regimi democratici?
La questione è molto complessa. Potrei dire che la risposta dipende dal tipo di verità che abbiamo in mente. Penso che una verità assoluta, anche senza una specifica connotazione metafisica, sia incompatibile con una politica democratica. Questo però non significa che la verità non conti in alcun modo. Rinunciare alla pretesa di detenere una verità assoluta non significa fare finta che la verità non esista. Come cittadini siamo tenuti ad argomentare le nostre idee, coniugando la convinzione di essere nel vero con la consapevolezza che la verità non è mai, per così dire, definitiva e che, dopo tutto, potremmo essere in errore.
Perché i sofisti hanno sempre goduto di una cattiva fama?
Per riprendere la formulazione adoperata di recente da Mauro Bonazzi (Con gli occhi dei Greci, Carocci, 2016, p. 39), ciò è accaduto perché i sofisti sono i perdenti della storia. In seguito all’opposizione congiunta di Platone ed Aristotele, il termine sofista, che originariamente significava semplicemente ‘sapiente’, è passato a indicare chi si serve del linguaggio in maniera vuota e capziosa per prevalere in una discussione. Si potrebbe affermare che la virulenza dell’attacco conferma il rango dei nemici: lo stesso Platone riconosce a più riprese lo spessore della riflessione svolta dai sofisti; nel farlo, tuttavia, fa calare su di essi una sorta di damnatio memoriae, contribuendo probabilmente alla perdita di gran parte dei loro testi. È per questo motivo che i sofisti hanno avuto bisogno di essere più volte riscoperti: da Hegel e Nietzsche prima, ed in maniera più ampia e circostanziata a partire dalla seconda metà del ‘900.
Sta lavorando a una prossima pubblicazione? Di che cosa si tratta e quando potremo leggerla?
Sto lavorando a due pubblicazioni che proseguono il lavoro cominciato con il libro del 2017. Nel 2020 dovrebbe finalmente uscire una mia traduzione, commentata e preceduta da una lunga introduzione, dell’Encomio di Elena. Vi troveranno posto tutte quelle questioni, anche filologiche, che non ho potuto affrontare nel libro. Sto poi lavorando ad un progetto di più ampio respiro, che dovrebbe essere completato per il 2021. Si tratta di un’indagine sui rapporti tra linguaggio e violenza, svolta a partire dal dialogo con autori quali Eschilo, Platone, Nietzsche, Arendt e Benjamin. Anche in questo caso mi muovo sulla scia di quanto già ho affermato nel libro a proposito della violenza simbolica insita nel linguaggio, in particolare nel suo uso nella sfera pubblica. Credo che una riflessione del genere sia oggi non solo attuale ma addirittura necessaria.