L’incertezza domina la nostra esistenza. Lo sappiamo oggi, ma lo sapevano meglio di noi gli antichi Romani
Vite spericolate, nuove sfide da affrontare, pericoli dietro l’angolo: questi sono spesso i temi dei film che vediamo al cinema. Ma la nostra vita siamo sicuri che sia anch’essa così? Diciamo subito che vorremmo che fosse così. Fermo restando, che quando arriva la difficoltà, tutti invochiamo la stabilità.-taglio- In ogni caso, la vita è rischio, incertezza, pericolo. Tutto quello che si agita intorno a noi e su di noi è precario: basta un nonnulla e crolla. Il sapiente è, dunque, colui che procede con razionalità e realismo: oltre al successo, avrà, forse, anche la felicità. Questi concetti sono ben noti alla nostra società moderna e telematica; ma erano addirittura il fondamento su cui si basava la società dell'antica Roma. Scrittori colti e popolo incolto ma saggio codificarono, più di 20 secoli fa, in detti e proverbi questa dura ma inoppugnabile realtà. Noi sceglieremo solo tre massime, ancora oggi valide per noi. Cominciamo dalla prima: “Stare sotto la spada di Damocle”. E' stato Cicerone nelle sue “Tusculane” a lanciare questo slogan, che si riallaccia ad un aneddoto. Dioniso II invitò il cortigiano Damocle a sedersi sul trono davanti a una tavola imbandita, ma con una spada appesa ad un crine di cavallo sulla testa: era il simbolo della precarietà della vita anche per un tiranno potente come lui. La seconda massima, inventata da Terenzio, ci fa capire quanto rischiosa sia la scelta stessa dell'individuo in difficoltà. Essa recita “Tengo il lupo per le orecchie” e significa: “Non so come mandare via il lupo, né come tenerlo fermo”. Vale a dire: non mi è possibile nessuna scelta. -taglio2- La terza sentenza è notissima: “Cade in Scilla chi vuole evitare Cariddi” (Virgilio). Cioè: anche ammesso che riesci a fare una scelta, cadi dalla padella nella brace. E allora, è impossibile vivere per gli antichi scrittori? No, al contrario. I Romani vedevano il male e sapevano fronteggiarlo. Come? Almeno in tre modi. Innanzitutto, temporeggiando. Ennio disse: “Un uomo solo, temporeggiando, salvò lo Stato”. Alludeva a Quinto Fabio Massimo, detto “Il Temporeggiatore”, che tenne in scacco Annibale: si servì, infatti, di un'abile tattica guerresca, con cui prendeva tempo mentre logorava ai fianchi l'avversario. In secondo luogo, è necessario tenersi aperta più di una via d'uscita: con una metafora Properzio sentenziò “Due ancore proteggono una nave meglio di una sola”. Ma la migliore soluzione per affrontare il rischio è prenderlo di petto. In una parola, rischiare. Come fece Cesare, che, come racconta Svetonio, quando varcò il Rubicone e sfidò Pompeo, pronunciò la famosa frase: “Alea iacta est” (“Il dado è tratto”, cioè “è stato ormai gettato”). In realtà, come sostiene Plutarco, la vera frase non è al passato, ma è proiettata verso il futuro: “Che sia gettato il dado”. Insomma, i Latini dinanzi ai rischi della Sorte davano un ordine deciso e perentorio: prevederli, combatterli, sconfiggerli. E così sia.