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Il mio teatro

di Maresa Galli

Numero 243 - Settembre 2023

L’attrice, regista, drammaturga e ricercatrice Anita Mosca torna in Italia con il nuovo spettacolo “Chincaglie”


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Dopo aver presentato i suoi lavori teatrali in Spagna, Libano, Giordania, Svizzera, Argentina, Cuba e Brasile, Anita Mosca torna in Italia. Il leit motiv del suo impegno è la scelta di qualità assoluta di teatro autorale internazionale che apre preziose riflessioni filosofiche ed esistenziali. Ai lettori di Albatros Magazine racconta i suoi progetti. -taglio- “Chincaglie” è il suo nuovo lavoro teatrale, immaginato come un percorso di frammenti e ricordi: come ha costruito questo spettacolo? “In Chincaglie, RecitalPerTreVoci” si susseguono in scena canzoni, canzonette, poesie, voci dialoganti e monologanti, in un ritmo serrato ed incalzante, a prima vista spaginato. Eppure, nel caos scenico di questo atto unico è forse possibile rintracciare un filo rosso che lega tutte le crastole dell’esilarante patchwork, in grado di raccontare l’indicibilità che segna, inesorabilmente, il nostro Tempo. Il progetto nasce dalla pulsione condivisa con Emilio Massa e Tonia Filomena, entrambi con me in scena per questo progetto, di costruire un percorso fatto di frammenti, ricordi, storie, suoni dei nostri rispettivi tracciati artistici, che desse conto di narrare la dimensione entropica nella quale ci sentiamo immersi. Ho così rimesso mano a testi miei di spettacoli passati, ma anche fatto brevi incursioni in Viviani, Pasolini e Valentin, cucendo, scucendo e ricucendo voci che da sempre mi abitano, per tentare di risignificarle in una nuova partitura scenica, attraversata da distinte linee narrative. L’intento è stato, non solo quello di farle vibrare nuovamente, ma anche e soprattutto, di dar conto della spiazzante schizofrenia che sembra tiranneggiare dagli inizi del Novecento ad oggi, circa usi e costumi secolari che tornano, impietosamente, a condizionare, subordinare, inchiodare la vita di uomini e donne in molduras e definizioni, che prestano fianco alla negazione dell’autodeterminazione di ciascun individuo. Penso a “Chincaglie” come un esperimento che mi ha permesso di rimettere mano alla mia drammaturgia nella mia lingua, dopo tanti anni passati all’estero a scrivere per il teatro per lo più in portoghese del Brasile”. Lei porta con successo il suo teatro nel mondo. Come ha vissuto il ritorno in Italia e a Napoli? “Ho vissuto in America Latina circa dieci anni, durante i quali ho avuto il privilegio di conoscere e collaborare con alcuni gruppi teatrali, artisti, scrittori e intellettuali, che hanno arricchito e stimolato il mio percorso artistico con nuove visioni e nuovi impulsi. In Brasile ho avuto modo di svolgere un lungo lavoro di ricerca, teorica e pratica, sulla Teoria della Traduzione del Teatro, che dal punto di vista accademico si concluderà il prossimo ottobre 2023 con la discussione della mia tesi di Dottorato presso la Universidade Federal de Minas Gerais, UFMG, in co-tutela con l’Università L’Orientale di Napoli. Mentre dal punto di vista dell’applicazione pratica alla scena ha potuto avvalersi del lavoro sul campo del gruppo teatrale Truπersa, Troupe di Traduzione e Messa in scena del Teatro Antico di Belo Horizonte, patrocinato dall’Università Federale, che ho diretto per sei anni, oltre a farne parte anche come interprete. Dal 2015 al 2021 abbiamo lavorato alla traduzione, alla pubblicazione e alla messa in scena delle tragedie Oreste, Elettra e Ecuba di Euripide, applicando una nuova metodologia di Traduzione del Teatro, formulata dalla ricercatrice brasiliana Tereza Virgínia Ribeiro Barbosa, fondatrice del gruppo. Oltre al lavoro sul teatro antico ho continuato anche in Brasile la mia linea di teatro autorale. Ho scritto e rappresentato diversi spettacoli in portoghese e partecipato a numerosi festival internazionali in America Latina con i miei lavori, tra i quali: “La cena”, “Eleonora ‘99”, “Gotas de Tragédia”. Il ciclo brasiliano rappresenta per me una fase straordinaria costellata da esperienze ed incontri marcanti. Da meno di un anno vivo di nuovo stabilmente a Napoli. Ne sono così felice, che a volte mi capita di camminare tra le strade della città e di sorridere a tu per tu con me stessa, ma il mio campo, per esempio, il Teatro, stento a riconoscerlo. Mi sembra che non siano più possibili le piccole, indipendenti, irriverenti avventure artistiche che decenni addietro, erano linfa vitale. Adesso non sento altro che parlare di numeri in termini di spettatori, di produzioni che nascono e muoiono senza circuitazione, di fusioni tra compagnie per andare avanti, di una gran confusione tra artisti e volti televisivi. Eppure, le attuali degenerazioni del sistema teatrale italiano per me rappresentano nuove sfide. Sono convinta che l’artista debba interpretare le esigenze della società e proporre, con creatività e progettualità, azioni significative sul territorio. Piuttosto, penso che il male del Teatro risieda oggi in leggi per lo spettacolo sciagurate e politiche culturali, nazionali e locali, carenti e inadeguate, non certo nell’assenza di un notevole fermento. Più sarà segnata dal virtuale questa nostra epoca, più il Teatro rappresenterà una possibilità rara e inestimabile, quasi eretica, di avere in presenza, davanti a noi, un vero essere umano, in carne ed ossa: l’attrice/l’attore”.-taglio2- Qualche anno fa lei ha curato adattamento e regia de “La svergognata”, che le è valso il Premio Girulà di Migliore Attrice Protagonista nel 2008: oltre all’attenzione sulla dura condizione femminile, ha posto l’accento sulle lingue e i dialetti, prezioso studio che porta avanti da sempre… “La svergognata” ha probabilmente segnato un passaggio importante nel mio personale percorso artistico, non solo per i riconoscimenti ricevuti e per una lunga tournée, che mi ha portata dalla Svizzera alla Giordania, dall’Argentina a Cuba e in Brasile, ma soprattutto perché sentivo di aver trovato una cifra, non solo come attrice, ma anche come regista e drammaturga. Il testo partiva dal romanzo di Sahar Khalifah, straordinaria scrittrice insignita del Premio Nagib Mafhuz, che ebbi il privilegio di conoscere ad Amman nel 2007. Tuttavia, in maniera istintiva e allo stesso tempo spontanea, riportai la vicenda narrativa del romanzo apparentemente così lontana, ambientata nel mondo arabo, al mio contesto di origine. In fondo Sahar Khalifah parlava di cose che sentivo, profondamente, intime”. Il suo spettacolo “Interno familiare” ambientato a Castellammare di Stabia e in dialetto stabiese, interpretato con intensità da Tina Femiano, si è avvalso di uno studio sulla famiglia, sul ruolo della donna, mettendo a confronto realtà diverse, da Amman in Giordania al Minas Gerais in Brasile ai Monti Lattari in Campania. “Si, “Interno Familiare” nacque come indagine teatrale sulla famiglia attraverso laboratori e residenze che ho condotto sul tema, con attori professionisti e studenti, per poi arrivare ad un progetto di messa in scena, ancora una volta nella mia lingua di radice. Dopo un’indagine estesa e la raccolta di diversi materiali drammaturgici in diverse lingue, provenienti da diversi paesi, scrivo infatti un testo segnato fortemente dalla mia lingua di radice, e poi ambientato nel vesuviano. Mi piaceva nelle note di regia, mantenere un’ambientazione vaga alle pendici del Vesuvio, non per rinnegare la mia origine stabiese, ma piuttosto perché mi sembrava interessante dire che quelle cose di cui parlavo, potevano accadere a Castellammare, come in qualsiasi altra provincia del vesuviano, campana, e addirittura italiana, al nord come al sud. Per “Interno Familiare” sono stata affiancata in scena da una grandissima, incisiva e generosissima Tina Femiano, che ha saputo incarnare l’archetipo di madre che avevo disegnato nel mio testo. È stato un grande dono averla in scena con me, così come avere Carmen Femiano alla direzione delle attrici”. Lei ha fatto parte per anni della Compagnia Teatrale Enzo Moscato. Ci racconta cosa ha significato quest’esperienza? “Ho incontrato Enzo Moscato ancora ragazzina a Castellammare di Stabia, intorno all’anno 2000, quando venne per condurre un laboratorio di drammaturgia. Mi ricordo che aprì la sessione dicendo: “Ragazzi, sono qui per voi e anche perché era di qui, un mio caro amico scomparso”. Si riferiva ad Annibale Ruccello, ovviamente. Ricordo che l’incontro con Moscato fu così folgorante, che mi apparve da subito come un poeta della scena talmente irraggiungibile, che mi convinsi che non avrei mai più avuto l’opportunità di parlargli dopo quel laboratorio. Tuttavia, ero piena di quell’esperienza, perché sentivo di avergli carpito uno dei suoi più grandi insegnamenti. E cioè, per elaborare una proposta di teatro autorale, bisognava mettersi alla ricerca della propria strada. E così tentai di fare io, negli anni successivi. Sono riuscita poi ad invitarlo in Brasile nel 2016, in collaborazione con il Festival Internacional de Belo Horizonte FIT BH e il Consolato Italiano di BH, in occasione della pubblicazione della mia tesi di laurea, la traduzione integrale in portoghese del Brasile del primo testo scritto e edito di Moscato, “Scannasurice”, in portoghese, “Degolarratos”, pubblicato dalla casa editrice brasiliana Relicário Edições. Da quel rincontro stupefacente in Brasile nel 2016 al 2022, ho avuto l’onore di lavorare a stretto contatto con Moscato e prendere parte a diverse produzioni della sua compagnia. In particolare, l’ultimo lavoro, “Pièce Noire”, per la regia di Giuseppe Affinito, anche in scena come interprete, è stata un’esperienza segnante, per lo spessore e la complessità del ruolo affidatomi, quello della Signora. Affinito mi ha seguita con particolare cura e abbiamo lavorato insieme in grande armonia e sintonia, sempre sotto l’occhio presente, e allo stesso tempo, discreto e generoso dell’autore, che veniva a seguire le prove. Una condizione di lavoro unica e privilegiata.”





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