Da sempre gli autori di fantascienza anticipano aspetti ed eventi futuri, siano essi positivi o catastrofici. È il caso della scrittrice israeliana Hamutal Shabtai che nel ‘97 ha pubblicato un libro dal titolo “2020”, la storia di una pandemia che avrebbe cambiato per sempre il mondo.
Psichiatra, figlia del noto scrittore Yaakov Shabtai, scrisse il romanzo in piena diffusione dell’Hiv. Con piglio sociologico, l’autrice profetizza un futuro nel quale è di rigore l’abolizione dei contatti umani. “È un libro su un virus che colpisce l’amore”, afferma l’autrice che nella sua distopia racconta il panico del contagio, la separazione di intere famiglie, la privazione delle libertà individuali nell’interesse collettivo della salute di tutti. La storia, inizialmente, era una sceneggiatura che non fu realizzata, divenendo così un romanzo di 600 pagine. Il mondo descritto è dominato da una dittatura sanitaria con a capo l’Organizzazione mondiale per la sanità. Gli individui sani sono rigidamente separati da quelli malati e, quotidianamente, sottoposti a severi controlli mediante stazioni disseminate ovunque. Le persone malate o a rischio sono deportate in “centri di cura” dai quali non torneranno più. Uno stato orwelliano dispone della vita di ogni individuo, in una società che diviene sempre più individualistica, paranoica e crudele. Nel romanzo, al principio della separazione tra sani e malati, scoppia un’insurrezione a San Francisco, repressa nel sangue. La terribile forza di polizia della “Hygienic Inspection Authority” indossa tute simili a quelle degli astronauti. Le notizie sul virus filtrano grazie ai social media e molti medici sono messi a tacere. Gli “Ash People/Ash Men” (persone delle ceneri/uomini delle ceneri) bruciano le case dei defunti. Gli abitanti della “Healthy Area” (area della salute) sono sottoposti a durissimi test. Tra le rigide restrizioni, nella società preconizzata da Shabtai è vietato frequentare tutti i luoghi di incontro tra uomini e donne. Il problema del sesso è “risolto” grazie all’impiego di speciali robot. È un romanzo che si spinge oltre ogni immaginazione, ma fino alle misure di contenimento della pandemia sembra di assistere proprio al mondo odierno devastato dal Covid 19. “Ho scritto il libro nell’ ’86 – spiega l’autrice – quindi non ci sono cellulari o internet”. Nessuna tecnologia consente agli umani di sopravvivere, solo la speranza di tornare a riabbracciarsi, baciarsi, toccarsi. La dittatura del nuovo mondo stigmatizza ogni forma di contatto, condanna l’omosessualità e le relazioni extraconiugali. “Avevo visto giusto allora – spiega Shabtai – ma solo ora ho avuto la prova che avevo ragione”. Il romanzo diviene così il pretesto per leggere i rapporti umani alla luce della pandemia, il cambiamento dell’umanità che, anziché farsi forza come collettività, riscopre istinti primordiali di sopravvivenza e sopraffazione. Purtroppo la paranoia non riguarda solo le persone: - “anche i paesi si rapportano tra loro in modo paranoico” – spiega l’autrice che narra “lo spiegamento psicologico che segue a una piaga si sta già verificando. Il sentimento di essere catturato in un sistema dittatoriale che ti traccia, ignorando i tuoi desideri, forzandoti a fare cose che ti infuriano: non immaginavo fosse così, anche se allora lo avevo previsto correttamente”. L’umanità è forse oggi ad un punto di non ritorno, con il rischio che, come nel romanzo, l’isolamento sociale, la paura diffusa, la comunicazione virtuale, il tutto filtrato dalla lente della paranoia, siano le risposte improbabili di relazioni al capolinea – a meno di scoprire un vaccino (secondo gli esperti) o a meno di ricollocare l’amore al centro delle nostre vite per sconfiggere la pandemia dell’anima.