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Fabio Mollo, al servizio della storia

di Adriano Fiore

Numero 176 - Aprile 2017

Sentire l’urgenza di raccontare: questo il dogma del regista de “Il padre d’Italia”, pellicola dal fascino struggente che racconta paure, emozioni e sogni. Dei due protagonisti e di un’intera generazione


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Quando ho visto il suo primo film “Il sud è niente” eravamo entrambi a Saline, nelle Eolie, per il Festival del cinema. Ricordo di aver conosciuto prima lui e poi, solo alcuni giorni dopo, aver avuto la fortuna di vedere in anteprima la sua opera. Giorni in cui, nel ristretto microcosmo isolano, nascono inevitabilmente simpatie e amicizie, tanto che penso ancora alle sue parole prima della proiezione quando, dopo tanto parlare di cinema, recitazione, ma anche di cucina, libri e viaggi, arrivava un po’ una sorta di banco di prova, che mi preannuncio semplicemente con un “spero ti piaccia”. Quell’esordio al lungometraggio di Fabio Mollo, regista nativo di Reggio Calabria ed al contempo “figlio” del Centro Sperimentale di Cinematografia, che a poco più di trent’anni era già fra i dieci migliori giovani registi internazionali selezionati dal Festival di Cannes, non solo mi piacque ma mi appassionò. Mi coinvolse con le sue atmosfere, coi suoi colori e soprattutto coi suoi silenzi, riempiti da Fabio con inquadrature semplici, per far trasparire quel sentimento che, ho poi scoperto, è solito chiedere agli attori che sceglie oltre la “buona interpretazione”, talvolta fine a sé stessa. Qualche mese fa, quindi, vengo a sapere che c’era la possibilità di bissare quelle good vibes con la sua nuova opera, che mi aspetto piacevolmente sulla falsariga della prima. Ovviamente ci metto poco per accorgermi dell’errore: ne “il padre d’Italia” Mollo mette un’altra parte del suo essere regista, fatta di un maggiore utilizzo della musica e del dialogo, con tinte diverse dalle prime sebbene comunque sempre funzionali alla forte trama, che tuttavia rimane – al pari degli sfaccettati protagonisti – un caposaldo del suo modo di fare cinema. Lo risento, quindi, dopo svariato tempo, per farmelo raccontare dalla sua viva voce, per chiedergli del suo rapporto con i bravissimi Luca Marinelli e Isabella Ragonese, e soprattutto per capire che cosa è cambiato da quei convincenti esordi. Mi ritrovo così a scoprire un regista cresciuto, con le idee chiare e con la voglia di continuare a stupire. Perché è convinto che ci sia “spazio a sufficienza” per sperimentare e trovare strade sempre nuove, basta non accontentarsi della normalità “e soprattutto avere coraggio”...

“Il padre d’Italia” è il tuo nuovo film, nel quale temi centrali sono la genitorialità ed il futuro annesso ad essa. Da quale idea sei partito per creare questa pellicola?

“In realtà sono partito proprio da queste due tematiche: volevo raccontare quell’istante in cui smetti di essere figlio per diventare genitore, e quindi le sorti di un’intera generazione che va avanti nonostante il precariato, economico ed emotivo, e tutte le annesse difficoltà. Ho voluto al tempo stesso omaggiare la mia generazione quando trova il coraggio di superare queste difficoltà, immaginando un futuro possibile.” -taglio- Il tuo è anche un messaggio contro una società fatta di stereotipi...

“Sì, un altro obiettivo che ho cercato di prefissarmi è stato quello di rispondere a tante domande che oggi si sentono in giro: che cos’è la ‘normalità’ e cosa non lo è? Che cos’è ‘contronatura’? L’istinto materno e paterno ha delle condizioni? Penso che il film dia una risposta ben precisa al riguardo.”

Una risposta che hai affidato ai tuoi due protagonisti Paolo e Mia, entrambi molto strutturati e sfaccettati. Ti sei ispirato a qualcuno per la loro creazione?

“Diciamo che la prima cosa che nasce è la storia, e questa è una storia che avevo in mente da tantissimo tempo, ed all’inizio pensavo che l’avrei solamente scritta e non anche diretta. La scelta degli attori, quindi, è arrivata dopo, e devo ammettere che Luca e Isabella sono stati davvero straordinari. Avevo bisogno di due grandi attori, due fuoriclasse, capaci di essere adatti sia alle parti drammatiche sia nella commedia, che riuscissero a dare un senso di infinità e di onesta a questo film. Prima delle riprese abbiamo lavorato un anno insieme, durante il quale abbiamo messo a punto i personaggi, lavorando sulle scene, sui dialoghi, sulla caratterizzazione, quindi sono riuscito a fare proprio il lavoro che volevo e ne sono estremamente felice.”

Possiamo quindi dire che, anche a dispetto della rilevanza dei temi trattati, “Il padre d’Italia” può essere definito una commedia drammatica?

“Sicuramente sì, ‘Il padre d’Italia’ vuole essere anzitutto un inno alla vita, celebrando la bellezza e l’amore. La vita stessa è un alternarsi di momenti drammatici e momenti comici, quindi volevo che il film ricreasse proprio questo tipo di atmosfere.”

Raccontando la vita, quanto ci hai messo della tua vita in questa pellicola?

“Di me c’è tanto ma anche niente contemporaneamente. Non è una storia autobiografica, ma quando scrivi inevitabilmente attingi dal tuo vissuto, magari calando atteggiamenti e personaggi in altre situazioni e contesti. In realtà mi premeva che di me ci fosse anzitutto l’idea della mia generazione, mostrando quello che sentono e provano ogni giorno i miei coetanei, dal modo in cui affrontano la genitorialità ai loro problemi e paure ricorrenti. Volevo che appartenesse soprattutto a loro a loro prima ancora che a me.”

Tornando ai tuoi protagonisti, come fai a capire quando un attore è adatto ad interpretare un tuo personaggio?

“Mah, dirò una cosa forse un po’ banale, ma mi affido completamente alle mie emozioni. Non è tanto la perfezione della scena o della battuta, scelgo soprattutto in base all’emozione che sento in quel momento, in me e nell'attore, e soprattutto a come riusciamo a veicolarla assieme. Mi convince vedere un attore che riesce a portare il personaggio nella direzione giusta, percorrendo -taglio2- un percorso di crescita.”

Essendo anche docente di regia cinematografica presso la Rome University of Fine Arts, se un tuo studente ti chiedesse la stessa cosa risponderesti? Come si “insegnano” le emozioni?

“È una cosa molto difficile. Più che altro cerco di insegnargli ad essere sempre al servizio delle emozioni, a non bloccarsi o fermarsi per nessuna ragione, al farsi guidare dal loro istinto. All’impegnarsi nel raccontare quelle storie di cui sentono l’urgenza. Troppe volte ci si ferma all’inquadratura figa, al movimento di macchina d’effetto… è invece importante che queste cose siano al servizio di un’emozione e non un esercizio di estetica fine a sé stesso.”

Pensando, però, al contesto internazionale, non credi che soprattutto il nostro cinema sia spesso apprezzato più che la bellezza della sua fotografia che non per le storie che propone?

“In parte è vero, ci sono state delle proposte molto molto belle che sono state anche premiate come meritavano. Tuttavia al tempo stesso recentemente il cinema italiano ha prodotto dei film ‘di trama’ altrettanto stupendi, che credo proprio avranno una buonissima accoglienza anche all’estero, e penso a ‘Lo chiamavo Jeeg Robot’, a ‘Veloce come il vento’, a ‘Mine’, e tanti altri. Se proprio vogliamo dirla tutta, il problema non sono tanto i registi e gli autori ma il coraggio dei produttori e dei distributori a puntare su questi film, che pur essendo qualcosa ‘di nuovo’ non per questo rappresentano un rischio e, anzi, la loro accoglienza da parte del pubblico alle volte è anche molto superiore rispetto alle aspettative.”

In questa nuova jeunesse dorée dei registi italiani possiamo certamente ascrivere anche il tuo nome. Tuttavia, rispetto ai tuoi esordi, il tuo modo di fare cinema ha avuto diversi cambiamenti. Come li descriveresti?

“Beh, credo che l’identità del mio cinema sia rimasta quella degli inizi al Centro Sperimentale, mentre ciò che è cambiato è certamente il linguaggio. Sono molto più sicuro su determinate cose ed oggi, probabilmente, ho anche molto più coraggio che mi permette di lasciarmi andare ed ‘osare’ qualcosina in più. Sento comunque di essere nel pieno di un percorso di ricerca, di crescita, di sviluppo, e quindi non vedo l’ora di fare il prossimo film!”

Come sarà il tuo prossimo film o, più in generale, come pensi si evolverà ancora il tuo modo di fare cinema?

“L’unica certezza per me è che sicuramente il mio prossimo film e le opere che seguiranno saranno tutte diverse una dall’altra. È una mia prerogativa, l’ho presa un po’ da Michael Winterbottom, un grande regista inglese che ha fatto proprio della diversità la chiave della sua arte, passando dal film digitale a quello in costume e così via. Vorrei essere un regista così: al servizio della storia e che sparisce dietro di essa. Storie diverse che vanno raccontate in modo diverso.”


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