Gli scrittori dell’antica Roma ci hanno insegnato ad abituarci a nuovi comportamenti per sopravvivere, anzi vivere meglio
E se non ci fosse un "dopo"? Naturalmente, dopo la pandemia. È questa la drammatica domanda che qualcuno si sta ponendo. Di fronte all’opinione di molti che sperano che tutto possa finire da un momento all'altro e che si possa tornare alla normalità, alcuni appunto si stanno chiedendo: “Ma, se mascherine e quarantena dovessero diventare restrizioni perenni o a lungo termine, avremmo la forza di sopportare queste difficoltà?”-taglio- Noi riteniamo che la speranza debba essere l’ultima a morire; ma, se la speranza dovesse esser delusa, dobbiamo prepararci anche a un’eventuale situazione distopica. Vediamo, come siamo soliti fare, che cosa pensavano -circa la possibilità di adattamento dell’uomo- gli scrittori dell’antica Roma, che facevano tesoro della cultura del passato ma al tempo stesso erano proiettati, più dell’uomo contemporaneo, verso i possibili esiti del futuro. E cominciamo con il più grande scrittore latino, Marco Tullio Cicerone, vissuto nel I sec. a. C., il quale, nel suo “De finibus”, scrisse: “Con l’abitudine si crea una seconda natura” ad indicare che nel corso della nostra vita ci si abitua ad una certa condizione scelta o imposta da qualcuno o dalla difficoltà degli eventi. In realtà, Cicerone (seguito poi da Sant’Agostino) riprendeva un aforisma del filosofo greco Aristotele (IV sec. a. C.), che nella sua “Retorica” affermava: “L’abitudine diventa simile alla natura”, frase che si ritrova, in forma più o meno simile, anche in un frammento testuale tragico, il cui autore non ci è pervenuto. L’adattamento alla realtà, per Cicerone, diventa un “habitus” culturale, (“cultura” si intende qui come “visione del mondo”): egli, perciò, coniò un’altra massima altrettanto efficace, quasi a integrazione di quella succitata. Nelle “Tusculanae disputationes” -taglio2-aggiunse, infatti, “Grande è la forza dell’abitudine”: insomma, attribuì all’abitudine (che in genere viene vista come una condizione di soggezione agli altri e alla realtà storica e personale) una vera e propria “vis”, appunto una forza, che diventa una “virtus”, che è in grado di guidare l’uomo. E Cicerone fa anche degli esempi di modifica positiva del proprio carattere grazie all’abitudine. Ad esempio, è proprio per merito dell’abitudine che l’uomo riesce a vincere la potenza del freddo e la sofferenza dovuta al male fisico. Insomma, l’abitudine è la prima condizione per resistere e andare avanti, che equivale a mettere in atto una preziosa e salvifica resilienza. È questa la dote che occorre oggi, durante questa nostra straniante battaglia contro un virus che si nasconde, che muta se stesso e che è riuscito a mutare molte nostre abitudini. La resilienza presuppone un forte equilibrio fisico e mentale: in questa operazione di auto-controllo dobbiamo bandire sia l’atteggiamento del vuoto superomismo sia la caduta nell’angoscia. Va invece recuperata e potenziata la scoperta della solidarietà, che in questi momenti cupi è stata la luce che meglio ha illuminato il nostro precario cammino.